Cultura-esperienza e cultura-conoscenza
Giovanna Parodi da Passano
Abstract
Nowadays it is quite common to speak about culture; speeches on this subject may be found everywhere. This article investigates how anthropological studies have faced this issue examining the works by some of the most famous anthropologist.
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Vorrei parlare del rapporto tra la cultura-conoscenza e la cultura-esperienza e del contributo portato dalla disciplina dell’antropologia nel cambiamento del concetto di cultura nel mondo occidentale. Oggi si parla di cultura dappertutto: di cultura degli immigrati, di cultura delle donne, di cultura rurale, di cultura europea… Prendiamo allora in considerazione come gli antropologi hanno elaborato questo concetto. Tylor nel 1871 scrive una formula rimasta per tanti anni nelle prime pagine dei manuali: «la cultura o civiltà intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme complesso delle conoscenze che include l’arte, la morale, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita da un uomo in quanto membro di una comunità». La cultura è dunque appresa, acquisita nella vita sociale. La cultura si apprende e si trasmette di generazione in generazione. Fu allora più facile il passaggio dalla forma singolare a quella plurale. Dalla cultura-conoscenza, patrimonio di pochi, si passò alla cultura-esperienza, patrimonio di molti. Questa definizione è ancora di dominio pubblico. Il concetto classico di “cultura” era sinonimo di erudizione e rimandava all’universo della scrittura. Il dotto era colui che aveva molto letto e studiato, la cultura era privilegio di pochi. Questo escludeva le società illetterate dall’universo della cultura. Infatti fino a più di un secolo fa questa parola indicava un complesso di conoscenze acquisite attraverso lo studio, che apparteneva solo a società alfabetizzate. Solo a partire dalla metà dell’800, grazie anche all’apporto delle scienze antropologiche, è stato applicato al plurale: quando si parla di “culture” si intendono tutti i comportamenti acquisiti, i sistemi di potere, le tecnologie, i simboli. Il vero atto di nascita della cultura plurale può essere fatto risalire a quando si comincia a parlare di civiltà al plurale: è alla metà del XVIII secolo che l’Occidente comincia a mettersi in discussione. Quelli che per primi hanno fatto vacillare i sistemi occidentali sono Diderot, Voltaire, Rousseau, ma sarà soltanto nel secolo successivo e a metà Ottocento che si comincerà anche in ambito accademico a studiare l’uomo nel gruppo. E si parlerà di cultura come lascito di un gruppo alle generazioni successive, trasformando il significato della parola da cultura-conoscenza a cultura-esperienza. La concezione della cultura-conoscenza, se ha portato a grandi realizzazioni nel campo delle scienze umane, ha finito per giustificare grandi aggressioni nei confronti di civiltà diverse da quella occidentale. Invece la concezione antropologica della cultura (cultura-esperienza) implica che ovunque c’è l’uomo in gruppo c’è cultura, c’è civiltà. La cultura al singolare non esiste, l’abbiamo inventata noi Europei. Esistono le culture che evolvono, si trasformano e si disgregano: un concetto che accomuna tutte le società, con l’esperienza della diversità come base dell’incontro etnografico. Oggi le cose stanno cambiando. Il lavoro dell’antropologo si collega al termine chiave, fino a poco tempo fa sconosciuto, di “globalizzazione”. Come era un tempo quello di cultura. C’è un indebolimento dell’autorità e dell’importanza degli antropologi nell’affrontare il concetto di cultura. C’è una presa di coscienza che quell’uso del termine al plurale oggi può funzionare in maniera diversa. Per la crescente interconnessione globale si dice che c’è il pericolo della morte della diversità culturale. L’antropologia è fatta segno di ridefinizione di progetti, che possono anche essere segno di vitalità. In realtà oggi la definizione antropologica di cultura è stantia, e si parla anche di estinzione della disciplina dell’antropologia. Oggi la gente circola portando con sé i propri significati, ma i significati hanno modo di circolare anche senza la gente. Gli stati nazionali faticano a ordinare una determinata società su un determinato territorio, i capitali, le immagini, le persone circolano sopra i confini, e le nostre vite si riorganizzano. Si è affacciata da tempo una nuova concezione di cultura: non più una gabbia che imprigiona le identità ma un percorso in continua trasformazione. Può tornare utile un nuovo concetto che è quello di “habitat di significato”, che può espandersi, può contrarsi, e quindi può essere identificato o in singoli individui o in gruppi. Ma è ancora difficile sbarazzarsi dell’idea di cultura. L’antropologia si trova in una impasse. Dalla sua nascita si è confrontata con le culture al plurale, oggetti di studio tutte egualmente degne di interesse. Poi si è visto che le culture, così come le lingue, non sono mai state universi definiti e separati gli uni dagli altri, sono semplicemente insiemi che presentano degli scarti significativi rispetto ad altri insiemi. Quando parliamo di cultura di villaggio, ad esempio di cultura delle castagne, le cose possono cambiare molto in relazione al punto di vista da cui viene condotta l’analisi. Lo scarto tra l’una e l’altra cultura si ha quando funziona un “marcatore semantico” che ci permette di definire una cultura rispetto alle altre. Ma bisogna sempre tenere presente che si tratta di rappresentazioni. L’antropologia riconosce che esiste una pluralità nel gruppo analizzato e il fatto che il pensiero non è condiviso al 100% dall’intero gruppo. Dipende dall’età, dal sesso, dall’istruzione dei componenti. Sta entrando in crisi anche il concetto di acculturazione. Quella dell’incontro-scontro delle culture è un’idea che può essere fuorviante, nel senso che presuppone che ci siano due insiemi integri, definiti, puri. Infatti ora si parla piuttosto di ibridazione, di creolizzazione. Sappiamo che l’epoca attuale è caratterizzata da un andirivieni tra l’ambito locale e quello globale. Il multiculturalismo è un fenomeno complesso. È stata abbandonata la visione conservatrice del lascito culturale che era simboleggiata nella parola “tradizione”. Una corrente vigorosa della nostra disciplina ha oramai voltato decisamente pagina rispetto a questa illusione di un mondo intatto, autentico, quasi esistesse un “grado zero” delle culture. Ora poggiamo il nostro lavoro su basi diverse: gruppi di pressione, flussi di capitali dei migranti, flusso di immagini digitali, movimenti migranti. I confini culturali sono completamente travolti.
Giovanna Parodi da Passano è docente di Etnologia presso l’Università di Genova e si occupa di Estetica dei “feticci” in Africa Occidentale
R. Borofsky (a cura di), L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma 2004 U. Hannerz, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna 2001 F. Laplantine, Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, elèuthera, Milano 2004
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