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Report sulle pratiche Europee di educazione interculturale

Mirca Ognisanti, Massimo Bortolini


Report sull'educazione, di Mirca Ognisanti
Riassunto del report sull'educazione, di Massimo Bortolini

Report sull'educazione di Mirca Ognisanti
1 Introduzione
2 Criteri di selezione delle pratiche
3 Metodologia
4 Tipologia di pratiche
5 Attori: organizzazione e beneficiari
6 Valutazioni interne
7 Conclusioni

1 Introduzione
La ricerca parte da riflessioni portate avanti da autori e partner del progetto.  Il materiale analizzato è frutto dello scambio di informazioni e di valutazione dei diversi casi studio presi in esame.
Il dibattito sul significato dell’educazione interculturale è ampiamente sviluppato nel report.
Nelle società complesse il ruolo dell’educazione è fondamentale, in quanto essa fornisce ai giovani strumenti necessari per vivere meglio la diversità. Allo stesso tempo essa risulta fondamentale perché gli adulti (come gli insegnanti) possano migliorare e perfezionare le proprie conoscenze nell’ambito dell’intercultura.
Questo report vuole essere un’introduzione a progetti e ad azioni che sono esempi di “buone pratiche” interculturali in Europa.
Durante la ricerca sono state fatte analisi sui differenti livelli di educazione interculturale. Le pratiche prese in esame hanno mostrato quanto sia difficile fornire una sola definizione di “interculturalismo”: la questione della definizione di “interculturalismo” e “multiculturalismo” si fa sentire in modo particolare in Italia.
Negli altri paesi europei (soprattutto nel nord dell’Europa) la maggior parte dei progetti cerca di fornire una risposta ai bisogni pratici e quotidiani dei migranti. Molte delle pratiche analizzate sono state condotte per risolvere problemi specifici (linguaggio, comunicazione, inclusione), e non per definire l’approccio adottato all’interno del dibattito sul multiculturalismo.
Queste pratiche, infatti, considerano prioritario promuovere i diritti civili piuttosto che fornire definizioni di interculturalismo o di multiculturalismo.
La differenza tra i progetti del nord Europa e quelli del sud è in parte legata a una storia diversa di flussi migratori e al modo differente in cui è gestita la diversità culturale: in Italia e nei paesi con un passato coloniale debole, l’immigrazione è molto recente (fine anni ’80), mentre in paesi come Gran Bretagna e Francia le politiche coloniali hanno favorito in anticipo l’inizio dei flussi migratori verso la “madrepatria”.
Paesi con una migrazione recente hanno appoggiato progetti, report e ricerche, per cercare di definire la situazione migrazione.
Dall’analisi di questi lavori è emerso come le pratiche di educazione interculturale in Europa abbiano due funzioni principali:
1. promuovere la tolleranza e il rispetto della diversità. Ciò costituisce un’arma contro razzismo e pregiudizi, fornendo quelle conoscenze, abilità e competenze che agiscono sulle diversità culturali. Queste pratiche confermano che la differenza è un fatto reale e fornisce un punto di partenza dal quale i ragazzi e l’intera comunità possono affermare le loro identità culturali e individualità con fiducia;
2. offrire opportunità educative paritarie. Ciò significa che una volta riconosciute le differenze culturali dei ragazzi si adotteranno particolari modalità di insegnamento.

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2 Criteri di selezione delle pratiche
Il primo criterio di selezione è stato l’incidenza del dialogo interculturale all’interno delle pratiche, ovvero la comprensione, lo scambio e la conoscenza reciproca tra cittadini di origine locale e straniera. Altre pratiche sono state scelte perché offrivano abilità necessarie agli immigrati nell’acquisizione di una cittadinanza più “reale” nei paesi europei (corsi di lingua, lezioni speciali).
La ricerca ha scelto di fornire una rappresentazione delle diverse tipologie dei progetti che rispondono ai bisogni degli immigrati nella realizzazione del dialogo interculturale. Le ridotte possibilità per i migranti di accedere alle risorse, al potere, alla rappresentatività sono considerate come una conseguenza di una asimmetria strutturale nel livello di attribuzione della cittadinanza, basata su un disequilibrio di diritti, capacità comunicative e condizioni di vita che colpisce i migranti nella quotidianità.
Nei paesi del nord dell’Europa, dove le politiche di inclusione e accoglienza sono consolidate, vengono privilegiate pratiche di educazione interculturale finalizzate a fornire agli immigrati un maggiore accesso ai diritti civili e alla cittadinanza. Esse si distinguono da quelle adottate nei paesi del sud, in cui la diversità è una variabile indipendente di interventi e progetti.

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3 Metodologia
Il report analizza le linee guida per valutare i diversi progetti.
Le pratiche prese in considerazione hanno sede in Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Grecia, Irlanda, Germania, Spagna, Repubblica Ceca e Belgio.
Alcuni di questi progetti sono il risultato di una cooperazione trans-nazionale, all’interno di specifici programmi europei, in particolare Progetto Comenius del Programma di Educazione Socrates.
La maggior parte delle pratiche è stata trovata su Internet, mentre altre sono state identificate grazie a contatti con professionisti che lavorano nei dipartimenti dell’educazione in diverse città europee.
L’analisi delle pratiche ha mostrato alcune difficoltà dal momento che in questo settore le attività non sono sempre visibili: i contenuti degli insegnamenti si basano su comunicazione e dialogo. Per tale ragione una scuola può sviluppare ottime pratiche, senza tuttavia diffondere informazioni e risultati. Una volta identificati i progetti di educazione interculturale, sono stati contattati i responsabili tramite e-mail o telefono, in modo da avere le informazioni necessarie per valutare il progetto

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4 Tipologia di pratiche
I progetti presi in considerazione possono essere classificati in due gruppi principali:
- tipo A: progetti che riguardano l’insegnamento (corsi di lingua, attività per studenti migranti, formazione di insegnanti). Questo tipo di pratiche si riferisce soprattutto all’educazione ed è perlopiù portata avanti da scuole o strutture di formazione/educazione;
- tipo B: progetti finalizzati a incentivare approcci interculturali, a diffondere conoscenza, comprensione e consapevolezza delle differenti culture.
Molti progetti appartengono al gruppo B. Questo è probabilmente dovuto alla mancanza di documentazione fornita dalle scuole per quanto riguarda i progetti del tipo A.
La ricerca mostra che la maggior parte dei progetti si svolge nelle scuole del nord dell’Europa, soprattutto in Gran Bretagna, e ha l’obiettivo di insegnare la lingua a studenti che appartengono a minoranze etniche.
Un’altra tipologia di progetti è quella rappresentata dalle attività di formazione di insegnanti: in alcuni casi la formazione è l’obiettivo principale del progetto, in altri rappresenta una tra le varie pratiche proposte.

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5 Attori: organizzazione e beneficiari
Le pratiche considerate sono rivolte a studenti stranieri, studenti “nazionali”, genitori, parenti, insegnanti. Le organizzazioni che propongono questi progetti possono essere classificate in quattro gruppi:
- scuole o enti che si occupano di educazione;
- municipalità o autorità locali;
- centri o dipartimenti universitari;
- associazioni e organizzazioni no profit.
Molte partnership sono state create per portare avanti i progetti: a livello nazionale o locale tra scuole e municipalità, a livello trans-nazionale tra partner di paesi diversi.

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6 Valutazioni interne
L’auto-valutazione finale è alla base del progetto stesso, in quanto consente di condurre riflessioni, di mettere in luce eventuali problemi e soprattutto di riconoscere se l’attività svolta si è rivelata o no una buona pratica. Tuttavia accade spesso che si tralasci quest’aspetto. Per rendere più semplice la valutazione sono state fatte alle organizzazioni queste domande:
- il progetto ha prodotto i cambiamenti auspicati in merito a conoscenze, competenze, attitudini, comportamenti e consapevolezze?
- il progetto ha prodotto o incrementato l’opportunità di uno scambio reale tra culture differenti?
Alcune pratiche valutate hanno mostrato che vi è stato uno sforzo notevole nell’analisi dei processi: infatti partendo dalle auto-valutazioni si è resa possibile un’analisi che ha identificato errori e che ha contribuito a migliorare le modalità di intervento.

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7 Conclusioni
Non è stato per nulla facile ottenere informazioni sul grado di soddisfacimento di ciò che si è imparato attraverso le diverse pratiche, nonostante questo sia molto importante perché il progetto possa essere ripetuto in un nuovo contesto. La valorizzazione delle attività, insieme all’analisi del loro impatto sulla società, ha una portata che si proietta sul lungo termine. Sulla base dei casi studio analizzati possiamo affermare che la tipologia di progetti si muove tra due o tre principali aree di attività (formazione, acquisizione di padronanza linguistica, dialogo culturale).
Le differenze tra i progetti sono determinate anche dalla metodologia adottata dalle organizzazioni: i metodi dipendono dal livello di consapevolezza culturale.
La qualità del progetto viene stabilita in un secondo momento, in base al grado di controllo che l’organizzazione ha sul progetto: la validità della pratica dipende dalle competenze degli enti promotori (scuola, amministrazione locale, ONG) nell’osservare i processi e le dinamiche generate dal progetto, di valutare l’impatto del progetto e di controllarlo.
Infatti il progetto non è solo una somma di azioni e di risultati. Spesso i risultati previsti sono accompagnati da effetti non previsti che devono essere gestiti in modo saggio e accorto.
Perché questo sia possibile l’organizzazione deve avere una sufficiente abilità nell’auto-valutazione, un’abitudine ad analisi incrociate delle dinamiche, e l’esperienza di leggere effetti in base a punti di vista qualitativi.
L’abilità nella valutazione è necessaria per operare le giuste correzioni al progetto in modo che esso sia costantemente in grado di riconoscere, identificare e rispondere a nuovi bisogni.
Molte delle pratiche analizzate mostrano una propensione a essere tra di loro frammentate e in scarsa comunicazione reciproca. Spesso pratiche simili non sono in minimo contatto tra loro. Anche se Internet offre la possibilità di creare uno spazio di interazione, la mancanza di un paradigma comune (la consapevolezza di cosa è stato fatto fino ad ora in questo specifico campo) è evidente.
D’altra parte la specificità di ogni singolo progetto, le diverse modalità di intervento creano un interessante mosaico di interculturalismo.
In conclusione ciò che si deve tenere in considerazione maggiormente è la doppia direzione che inserisce la retorica “Glocal” in un ambito in continua trasformazione, dove le basi delle pratiche tradizionali, finalizzate ad alimentare l’interculturalismo con l’educazione, sono accompagnate da competenze variabili di organizzazione e di lavoro, in modo da essere in grado di osservare e rispondere ai cambiamenti determinati dai complessi processi di trasformazione delle nostre società.

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Note
1 - Per maggiori informazioni e per i risultati delle analisi condotte dai partner è disponibile il sito Internet www.interculturemap.org.
2 -  M. Roncoroni, Good practice in intercultural education learning from and for each other, in «Equal Voices», Issue n. 8, EUMC, http://eumc.europa.eu/eumc/index.php.
3 - M. Ambrosini, Introduzione. Le seconde generazioni. Spunti per il dibattito italiano, in M. Ambrosini, S. Molina, Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, p. XIII.
4 - A. Rivera, Etnia-etnicità, in R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L'imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001, pp. 123-151.
5 - Questa considerazione è il frutto dell’osservazione di un notevole numero di progetti e pratiche, la cui documentazione è stata analizzata con l’intento di selezionare i casi studi presentati.

Report sull'educazione, di Massimo Bortolini
1 La diversità come…
2 La scuola come luogo d’esclusione
2.1 Quale opportunità?
2.2 Alcune constatazioni
2.3 Conclusione
3 La formazione
3.1 Risposta ad un problema

1 La diversità come…
Secondo gli abitanti del Quebec ci sono tre modi di trattare la diversità nella società o a scuola: il primo vuole che la “diversità” sia considerata “come un handicap”, il secondo che la “diversità” sia considerata “come una situazione temporanea” da far sparire, il terzo che la “diversità” sia considerata “come un’opportunità”. Il testo che segue tenta sinteticamente di mostrare i vari approcci alla diversità nell’insegnamento e nella formazione degli esperti del settore sociale nei differenti paesi per i quali abbiamo ottenuto informazioni pertinenti: il Belgio, la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, il Lussemburgo, la Germania, la Repubblica Ceca e la Svezia.

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2 La scuola come luogo d’esclusione
Per iniziare bisogna constatare che nessun modello è rappresentativo di ciò che si fa oggi in materia in Europa. Tra il sistema francese ultra-centralizzato e il sistema britannico, in parte nazionale, ma con una larga autonomia lasciata alle scuole, il margine è grande.
Sembra inoltre che, al di fuori dei casi del Belgio e del Gran Ducato di Lussemburgo (ma in maniera limitata), nessuno Stato abbia (per ora) inscritto la diversità o l’interculturalità nella formazione di base degli insegnanti. Viene lasciata libertà a coloro che desiderano scegliere dei corsi opzionali o avvicinarsi a delle organizzazioni specializzate.
Si pone quindi la questione, che senza dubbio sarà ricorrente, di sapere se è pertinente imporre questo contenuto in una formazione iniziale; o ancora se è preferibile favorire la formazione continua o aggiungere quest’ultima alla formazione iniziale.

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2.1 Quale opportunità?
Se si riprendono le tre distinzioni fatte dagli abitanti del Quebec – handicap, situazione temporanea o opportunità – appare evidente che le due prime percezioni sono quelle più presenti nelle azioni concrete, e che il concetto di opportunità si avvicina al discorso politico che sottolinea la ricchezza di una società multiculturale.
La maniera in cui le scuole e le politiche educative trattano l’insegnamento interculturale è in primo luogo legata alla presenza di giovani figli dell’immigrazione. I discorsi possono essere generali e trattare la diversità e la sua importanza, resta il fatto che è questa presenza che fonda la riflessione sull’interculturalità nell’educazione.
Ciò che i diversi studi mettono in evidenza in relazione ai figli dell’immigrazione tocca:
1) i posizionamenti, le discriminazioni e le performances scolastiche;
2) le competenze linguistiche e di linguaggio;
3) le variabili individuali e familiari: le strategie identitarie, il bilinguismo e il ruolo della lingua materna, la sociolinguistica legata all’analfabetismo di ritorno;
4) le variabili relative al posizionamento istituzionale: etereogeneità vs omogeneità, etnicizzazione delle rappresentazioni, rappresentazioni reciproche.

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2.2 Alcune constatazioni
I dati cui abbiamo avuto accesso nel corso della nostra ricerca dimostrano chiaramente che la diversità, l’eterogeneità, la differenza sono presenti e tenute in considerazione da tutti coloro che promuovono delle azioni interculturali. Riconoscere questo non significa tuttavia dire che le discriminazioni siano assenti, né che ci si preoccupi di queste o che si abbia intenzione di trattarle a livello scolastico quando esse concernono il funzionamento “normale o normato” della società. Le discriminazioni sono infatti riconosciute e prese in considerazione, ma non sembrano toccare la realtà istituzionale della scuola.
Altro dato interessante è la centralità dell’apprendimento della lingua nel processo di riuscita scolastica e di integrazione. Se questa esigenza è accettata ovunque, è tuttavia utile sottolineare delle differenze di approccio: per esempio nel Lussemburgo, i maestri/e della scuola materna hanno l’obbligo di apprendere la lingua portoghese e hanno la lingua italiana come opzionale (portoghesi e italiani rappresentano i due gruppi di immigrazione più importanti nel Lussemburgo); in Svezia, l’educazione bilingue è promossa (anche se questa scelta si scontra con delle difficoltà di organizzazione) ed è possibile apprendere la lingua detta di origine come prima lingua; un insegnamento bi-culturale a livello primario è sviluppato dai fiamminghi a Bruxelles, che vanno nello stesso senso. Altrove, i soli corsi di Lingua e Cultura di Origine (LCO) sono proposti come opzione in certe scuole.

È inoltre importante sottolineare il ruolo giocato dalle associazioni. Questa importante partecipazione dell’associativo nell’ambito scolastico è positiva. Ci sembra tuttavia, conoscendo le difficoltà della scuola ad aprirsi verso l’esterno, che questo fatto testimoni forse anche un’esternalizzazione della problematica: ci sono degli specialisti, o supposti tali, che sono incaricati di intervenire. Questo rinvia alla distinzione tra saperi e competenze. Entrare in un modo di procedere interculturale o di apertura alla diversità è una questione di saperi ma soprattutto di competenze da sviluppare. Fare intervenire in maniera puntuale delle associazioni su delle problematiche segnalate torna spesso a privilegiare i saperi, e noi chiudiamo là l’anello della competenza scolastica.

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2.3 Conclusione
La presa in considerazione della dimensione interculturale o dell’apertura alla diversità è in definitiva sempre più presente nell’Unione europea; resta il fatto che la storia di questi paesi, il modo in cui concepiscono l’integrazione, il modo in cui essi si concepiscono o meno come paesi di immigrazione o come società multiculturali, e il modo in cui pensano la presenza delle minoranze nazionali, determinano largamente la maniera in cui questi stati decidono di prendere in considerazione le conseguenze dell’immigrazione sulla e nella scuola.
Se è necessario sostenere azioni interculturali, queste non devono essere pensate unicamente come un modo di sopprimere la differenza, ma è essenziale includere una dimensione politica sull’avvenire multiculturale degli stati europei e dell’Europa come terra d’immigrazione. Ciò richiede, oltre all’inclusione di questa dimensione all’interno dei corsi, un messaggio chiaro e senza ambiguità dei governi nazionali e dei responsabili europei dell’educazione.

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3 La formazione
La formazione all’interculturalità – al di fuori del campo dell’insegnamento – ricopre un numero importante di settori, ma si può dire, senza sbagliarsi troppo, che il “denominatore comune” è nella “comunicazione interculturale”. Queste formazioni trattano, generalmente, altre tematiche: flussi migratori, discriminazioni, identità e cultura, ecc., e non si limitano, formalmente, all’unico aspetto della comunicazione. Tuttavia, la finalità e gli obiettivi di questo tipo di formazione è il miglioramento dei rapporti tra individui e tra gruppi di individui, grazie ad una comunicazione basata su una migliore conoscenza del contesto, delle popolazioni presenti, delle norme e dei codici.
Le formazioni osservate (perlopiù in ambito francofono) hanno quattro punti comuni:
1) una logica del cambiamento: la formazione mira ad indurre dei cambiamenti nelle persone o nei sistemi;
2) la formazione e colui che viene formato sono al centro: il programma è negoziato con il richiedente e adattato alla sua domanda e ai suoi bisogni;
3) prevale un’articolazione teorica e pratica: i saperi trasmessi non hanno utilità se non sono utilizzati o se non danno senso ad una realtà vissuta;
4) è importante per seguire la razionalizzazione e professionalizzazione: la capacità del formatore a oggettivare le sue intenzioni, i suoi mezzi, il contesto e i risultati che ci si aspetta.

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3.1 Risposta ad un problema
La domanda di formazione spesso viene effettuata in seguito a un problema in cui incorre un’istituzione o un gruppo di professionisti. Una situazione insoddisfacente o problematica provoca una domanda del tipo “ci sono delle bande di giovani che…, aiutateci a comprendre che cosa vogliono”, o “noi vorremmo che questa cosa cessi”, o “come fare…”, essendo l’obbiettivo quello di mettere fine a questa situazione.
Nella metodologia, le finalità e gli obbiettivi degli organismi che propongono delle formazioni, la riflessività, la decentrazione, la presa di coscienza degli impliciti culturali, ecc. sono centrali. Nessuno appare pronto a contravvenirvi. Pertanto, concretamente, la risposta alla domanda di formazione tenderà  a corrispondere alle attese espresse al momento dell’incarico, e il dopo formazione è raramente investito da questi organismi e non sembra evidente, ovvero possibile, la misurazione dell’impatto in termini di trasformazione delle persone. Il sistema non sembra modificarsi molto. La ricorrenza delle domande, la ripetizione dei problemi identificati e delle questioni da risolvere nel corso delle generazioni di migranti e dei flussi migratori sembrano indicare che nelle istituzioni che contattano gli organismi di formazione non viene operata alcuna reale capitalizzazione.

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3.2 Conclusione
Ciò che è in gioco in queste formazioni è certo un lavoro sull’identità, sul riconoscimento reciproco.
Ciò non significa una rimozione sistematica dei conflitti potenziali: al contrario i conflitti che emergono sono delle opportunità utilizzate dal dispositivo di formazione per esplorare le “zone sensibili” delle interazioni identitarie.
Come nel campo dell’insegnamento, la presa in considerazione della dimensione interculturale o di apertura alla diversità sembra sempre più presente nelle proposte di formazione; per lo meno ciò fa parte della promozione e della pubblicità che fanno gli organismi di formazione. È senza alcun dubbio un elemento essenziale. Come d’altronde lo è il fatto di concentrarsi sulla necessità della riflessività e della presa di coscienza dei propri impliciti culturali e sociali.
Resta tuttavia che, come per il settore dell’insegnamento, il quadro dell’integrazione e il modo in cui gli stati si pensano come società multiculturale, si ritrovano nella norma prevista dalle domande formative. In altri termini, la formazione all’interculturalità è vissuta, da coloro che vi sono ricorsi, come normativa, e come soluzione destinata a risolvere dei problemi posti, dagli stranieri e da persone nate dall’immigrazione, che anche quando stabilitesi da decenni, anche se la maggior parte sono ormai nati nei paesi d’accoglienza dei genitori/nonni, restano considerati come “altri”, “differenti”. Come degli handicap, o degli handicappati. A seconda del caso, temporaneamente non integrati; raramente come risorsa.

Massimo Bortolini è coordinatore d’informazione e diffusione nel CBAI (Centre Bruxellois d’Action Interculturelle). Da una decina d’anni interviene presso professionisti (insegnanti, bibliotecari, operatori sociali, ecc.) nella formazione iniziale e continuata sull’interculturalità e sulla diversità culturale

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