Epistemologia dell’identità culturale
Vincenzo Fano
Abstract
In the present essay the author attempts to show that the crisis of the concept of cultural identity, which developed in the last twenty years, is mainly due to a realistic interpretation of it from a structuralist perspective.
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Il moderno concetto di “cultura”, di cui si avvale l’antropologia culturale come scienza sociale, si fa spesso risalire al tardo Illuminismo tedesco, in special modo alla nozione pre-romantica di “genio di un popolo”, elaborata da Johann G. Herder, il quale riprende anche l’idea di Wilhelm von Humboldt, secondo la quale in ogni lingua sarebbe espresso lo spirito di un popolo. Tale nozione ricorderebbe addirittura quella leibniziana di “monade”, intesa come un punto di vista sul mondo senza porte né finestre, cioè che non entra realmente in interazione con le altre monadi. Spetterebbe a Edward B. Tylor il compito di importare tale nozione nella scienza antropologica, con la sua famosa definizione di cultura: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Tuttavia questa nozione è ancora strettamente legata al concetto di progresso umano, elaborato sempre dall’Illuminismo tedesco, ma anche dall’Illuminismo francese di Condorcet. In pratica, ogni cultura può essere collocata ad un certo grado di sviluppo, con l’implicita assunzione che le culture di grado più alto siano migliori e che ogni cultura deve attraversare gli stadi precedenti per raggiungere i gradi più alti.
Critica alla nozione evolutiva di cultura Quest’idea viene radicalmente criticata da Franz Boas, il quale prende le mosse dalla seguente definizione della nozione di cultura: «La cultura può essere definita come la totalità delle reazioni e delle attività psichiche e fisiche che caratterizzano, collettivamente e individualmente, il comportamento degli individui componenti un gruppo sociale in relazione all’ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del proprio gruppo, nonché di ogni individuo in relazione a se stesso. Include anche i prodotti di queste attività e il loro ruolo nella vita dei gruppi. La semplice enumerazione di questi vari aspetti della vita, però, non costituisce la cultura. Essa è molto di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti, hanno una struttura.» Questa definizione è decisamente più chiara dal punto di vista metodologico rispetto a quella di Tylor. In primo luogo, essa si riferisce alle attività psichiche e fisiche dei membri di un gruppo e del gruppo nel suo insieme, senza chiamare in causa concetti generali e vaghi, come quelli di arte, morale e diritto. In secondo luogo, essa definisce esattamente gli ambiti in cui tali attività si espletano, cioè con altri gruppi, con i membri del proprio gruppo, con se stessi e con l’ambiente naturale. In terzo luogo, essa esplicita il fatto che tali attività dei singoli producono strutture complesse, che sono parte della cultura, cioè appunto arte, morale, diritto ecc. Infine essa nota che i diversi tratti di una cultura sono fra loro legati da una struttura; ovvero una cultura è un intero che è più della somma delle parti da cui è costituito. Nel capitolo successivo, Boas si chiede se l’ipotesi secondo cui sussiste uno sviluppo progressivo fra le culture, dalle primitive alle più recenti, tanto che alcune di esse possono essere considerate primitive e altre sviluppate, sia corretta. Il nostro autore attacca tale supposizione, mettendo in campo una batteria di argomenti empirici e metodologici di straordinario acume, che ricorda la sottigliezza di grandi scienziati come Charles Darwin, l’erronea interpretazione del quale, fra l’altro, è in parte a fondamento della tesi dell’evoluzionismo culturale. Boas nota innanzitutto che l’evoluzionismo culturale è una tesi empirica, che sarà smentita o confermata, a seconda che, a partire dai reperti archeologici e dagli studi sul campo, emerga che tutte le culture seguano lo stesso percorso. Anche se ci limitiamo al caso delle invenzioni, che è la parte più facilmente documentabile di una cultura, e anche quella in cui sembra relativamente semplice istituire un ordine basato sulla maggiore complessità e adeguatezza di una tecnica, l’evoluzionismo culturale è un’ipotesi falsa. Ad esempio, benché sia vero che l’allevamento si evolva dalla caccia e l’agricoltura dalla raccolta di piante selvatiche, non è tuttavia possibile istituire un qualche ordine causale o progressivo fra allevamento e agricoltura. Queste due attività spesso riguardano gruppi diversi, mentre «gli stadi evolutivi vanno riferiti ad un aspetto culturale in cui è implicato lo stesso gruppo di persone e in cui perdura lo stesso tipo di attività.» Inoltre risulta che le usanze non si sviluppano solo in una direzione, ovvero gli stessi tratti culturali, in popoli diversi, possono avere esiti diversi. Non solo, gli stessi tratti culturali possono essere esito di diverse catene causali, cioè possono provenire da situazioni diverse.
In altre parole, uno sviluppo lineare sarebbe confermato solo se i rapporti di evoluzione culturale fossero del tipo A, mentre di fatto sono molto comuni sia le biforcazioni di tipo B, sia le convergenze di tipo C. Dunque da queste pagine l’ipotesi evolutiva risulta empiricamente falsificata e i grandi interpreti dell’antropologia culturale, da Malinowski a Lévi-Strauss, hanno preso le mosse da questa nuova concezione comparativa di cultura.
La crisi della nozione comparativa di cultura La nozione comparativa di cultura, che abbiamo brevemente delineato nel paragrafo precedente, è stata sottoposta negli ultimi tempi a una serrata critica metodologica. Si è notato innanzitutto che le culture cambiano in modo troppo radicale nel tempo, perché si possa parlare della stessa cultura per un gruppo in diversi momenti della sua storia. Inoltre il mondo non è popolato da culture, ma da individui, ognuno dei quali è portatore di un intreccio di tratti comportamentali unico e irripetibile. Se ci si rende conto di questo, diventa possibile aprire “le porte e le finestre” delle diverse culture. Infatti, se l’individuo a, che attribuiremmo all’identità culturale A, s’incontra con l’individuo b, che è ascrivibile alla cultura B, e le culture A e B sono radicalmente diverse fra loro, cioè incommensurabili, non dobbiamo intendere l’incontro fra a e b nei termini di A e di B, ma come concreta interazione fra gli individui a e b; il che comporta la reale possibilità che i comportamenti di a e di b si modifichino. In altre parole, da un punto di vista pratico, nella effettività dell’interazione sociale fra individui, l’eventuale incommensurabilità fra due culture si stempera in una possibile azione interculturale fra individui. Tuttavia l’effetto forse più grave di questa visione monadica delle culture è il fenomeno delle identità indotte, delle identità imposte e delle identità inventate. Come nota giustamente Amselle: «L’invenzione delle etnie è l’opera congiunta degli amministratori coloniali, degli etnologi di professione e di coloro che uniscono le due qualifiche.» Ovvero essa rientra nella strategia imperialista del divide et impera, praticata dagli stati europei. Ormai quasi nessuno sostiene seriamente la rilevanza politica del concetto di razza; come osserva Fabietti, un bambino eschimese adottato in tenera età a Roma è più facile che nel suo sviluppo diventi un medio cittadino romano, piuttosto che essere attratto violentemente dalla caccia all’orso bianco nello zoo della città! Tuttavia si sta imponendo un razzismo de-biologizzato delle etnie. Anche se la nozione comparativa di cultura elaborata da Boas non ammette una distinzione fra culture superiori e inferiori, il fatto stesso di distinguere le culture è stato spesso la premessa per escludere e includere, per gerarchizzare e ghettizzare. Abbiamo dunque visto quali siano i vantaggi metodologici che derivano dal ripensamento epistemologico della nozione di cultura. Accanto a essi, però, si delinea un problema radicale: se la nozione comparativa di cultura non è utilizzabile, se dobbiamo parlare di individui e non di culture, se non possiamo attribuire identità culturali, allora dobbiamo chiederci quale sia lo statuto dell’antropologia. Ovvero dobbiamo porci la questione di quale sia l’oggetto dell’antropologia culturale.
Lo strutturalismo Facciamo un passo indietro, per vedere se è la nozione stessa di cultura che viene messa in crisi o se, invece, è un particolare modo di intendere tale concetto che ha palesato i suoi limiti. Perché, come abbiamo visto, il rischio è quello di buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. In altre parole, è chiaro che la nozione d’identità culturale va ripensata, ma dobbiamo indagare se tale riconcettualizzazione porti con sé un fallimento radicale del discorso antropologico o se, invece, sia sufficiente un aggiustamento epistemologico parziale. A tal fine ripercorriamo alcune riflessioni metodologiche di uno dei padri dell’antropologia del Novecento, cioè Lévi-Strauss. Il lettore avrà già compreso i nostri intenti. Vedremo come il concetto antropologico di cultura messo in discussione deve molto alla monumentale lezione dello studioso francese e che per buona parte sono proprio quei tratti epistemologici che sono andati in crisi e non la nozione di cultura nella sua interezza. Per cui l’attuale rivoluzione va ripensata più come una critica dello strutturalismo in antropologia, che come un fallimento completo di tale disciplina. Nella sua riflessione metodologica sull’antropologia, Lévi-Strauss muove dall’esempio della linguistica, che, a suo parere, è l’unica fra le scienze umane che ha raggiunto la maturità. Tale disciplina, infatti, per opera soprattutto di Saussure e Trubezkoi, non si occupa tanto dei singoli atti linguistici, quanto delle strutture della lingua. Fondamentale è quindi la distinzione fra langue e parole, dove solo la prima è oggetto della scienza, in quanto essa agisce inconsciamente nell’attività del singolo parlante mediante il suo carattere di sistema. Esemplare, inoltre, la definizione dell’entità fondamentale della fonologia, cioè il fonema, inteso come un tipo di evento sonoro minimo che, in una lingua, dà origine a una differenza di significato. Dove si vede che oggetto della scienza non sono tanto i suoni quanto le differenze fra i suoni. Lévi-Straus vuole trasferire i caratteri di questa rivoluzione epistemologica all’antropologia. Egli è convinto che ormai la linguistica sia assimilabile alle scienze naturali e vorrebbe che anche l’antropologia assumesse un metodo analogo. Per ottenere ciò, quest’ultima non deve fermarsi all’osservazione dei comportamenti degli uomini, ma deve cercare le strutture nascoste e inconsce che li guidano. Tali strutture non sono osservabili, ma, come nella fisica, possono essere descritte mediante modelli. Nessun modello riesce a cogliere perfettamente la realtà nascosta e inconscia che guida i comportamenti umani, ma certamente ci sono modelli più veri, cioè più vicini a cogliere le strutture. A questo punto ci possiamo chiedere quali conseguenze comporta tale impostazione riguardo al nostro problema, cioè quello della nozione di cultura. Nel 1953 Lévi-Strauss definisce in questo modo tale concetto: «Chiamiamo “cultura” ogni insieme etnografico che, nella prospettiva dell’indagine, presenti, rispetto ad altri, scarti significativi.» Con il termine “insieme etnografico”, Lévi-Strauss intende il risultato di un’analisi sul campo relativa ad un gruppo sociale. Cioè in pratica la descrizione dei comportamenti di un gruppo come si trova sui taccuini dell’etnografo. La locuzione “nella prospettiva dell’indagine” significa che, comunque qualsiasi classificazione di comportamenti si basa su una precedente scelta di categorie antropologiche, per cui, in ogni caso, non esiste una descrizione etnografica neutra. Ma il concetto chiave è quello di “scarto significativo”. Una cultura non è tanto un insieme di tratti comportamentali, quanto un insieme etnografico significativamente differente da un altro insieme etnografico. Subito ci torna alla mente la definizione di fonema, che avevamo visto in precedenza: un fonema non è un tipo di evento sonoro, ma è individuato da una differenza fra tipi di eventi sonori che sia significativa. Ad esempio “c” è un fonema in italiano perché “cane” e “pane” hanno significati diversi. Detto questo, ci domandiamo se non esiste altro che «un certo numero di esseri umani collegati gli uni agli altri da una serie illimitata di relazioni sociali», come pensa l’antropologo inglese Radcliffe-Brown, per cui le culture sarebbero delle mere astrazioni. Lévi-Strauss risponde: «L’obiettivo ultimo delle ricerche strutturali è quello delle costanti connesse a tali divergenze [quelle fra culture], e perciò risulta evidente che il concetto di cultura può corrispondere a una realtà oggettiva pur rimanendo funzione del tipo di ricerca considerato.» In altre parole, l’impostazione strutturale cerca ciò che non varia nel passaggio da una cultura all’altra. Questo significa che la nozione di cultura è solo un termine medio per arrivare a cogliere le strutture che valgono per tutte le culture, ovvero è il momento dell’etnologia che segue quello dell’etnografia. Ma lo scopo ultimo dell’indagine è quello di raggiungere il livello astratto dell’antropologia, cioè di individuare ciò che vale per tutti gli uomini, ovvero ciò che è invariante. Ciò nonostante, rimanendo all’interno di un certo tipo di indagine ancora parziale, cioè non del tutto astratta, alla cultura può corrispondere una realtà oggettiva. Sottolineiamo il “può”, poiché è chiaro che non ogni modello che i ricercatori formulano coglie nel segno, cioè ha un effettivo contenuto di verità. In un altro punto, Lévi-Strauss nota che non dobbiamo identificare le “relazioni sociali” con la “struttura sociale”, poiché le prime costituiscono solamente il materiale empirico sulla base del quale si formula il modello teorico della struttura sociale. In questo processo di messa a punto delle ipotesi è fondamentale distinguere fra “osservazione” ed “esperimento” in antropologia. La prima si riferisce alla mera registrazione del materiale etnografico, il secondo – è in realtà più un esperimento mentale – è una valutazione di che cosa accade alle relazioni sociali osservate se modifichiamo alcuni parametri. Questa variazione serve a proporre dei modelli delle strutture che siano invarianti. In questo procedimento la nozione di cultura gioca il ruolo di un primo passo verso ciò che è invariante, che verrà poi ulteriormente generalizzato. Nei prossimi paragrafi forniremo una valutazione più dettagliata della prospettiva metodologica qui brevemente delineata, diciamo subito però che a nostro parere la critica recente della nozione di cultura ha di mira più il “realismo” professato da Lévi-Strauss, cioè l’idea che le culture siano delle realtà, piuttosto che l’utilizzo di tale nozione come mero strumento di concettualizzazione.
Max Weber e le scienze della cultura Abbiamo buone ragioni per ritenere che alcuni oggetti ipotizzati dalla fisica moderna esistano anche se non li percepiamo. Gli atomi, ad esempio, sono troppo piccoli per i nostri organi sensoriali; gli ultrasuoni hanno frequenze non registrabili dai nostri timpani e solo una piccola parte delle onde elettromagnetiche sono per noi visibili, a causa della particolare struttura chimica della nostra retina. Non siamo sicuri che tutte le entità non osservabili ipotizzate dalla fisica siano reali, perché spesso tale disciplina ha proposto oggetti che si sono poi rivelati essere delle chimere, come ad esempio il calorico e l’etere luminifero. Tuttavia è ragionevole supporre che non tutto ciò che esiste in natura sia percepibile. Inoltre, al di là dei comportamenti verbali e non verbali delle altre persone, possiamo supporre per esse l’esistenza di un vissuto, a noi sostanzialmente inaccessibile, analogo a quello nostro. Disponiamo infatti di leggi psicofisiche che regolano la connessione fra stimoli e sensazioni. Così, ad esempio, il taglio con una lametta di un polpastrello sano e non anestetizzato provoca nella stessa zona una sensazione di acuto dolore. Per cui, benché io percepisca chiaramente solo il dolore nel mio polpastrello, è molto probabile che anche un’altra persona avverta una sensazione analoga nella stessa zona a seguito dello stesso stimolo. Per contro non abbiamo nessuna buona ragione per credere che, al di là degli stati mentali e dei comportamenti dei singoli uomini, esistano le entità dello “spirito oggettivo” ipotizzate con chiarezza da Hegel, come “il mercato”, “le classi sociali”, “lo stato” ecc., che hanno riempito migliaia di volumi della riflessione politica e sociale degli ultimi due secoli. Al fine di chiarire questo punto, compiamo un salto nello spazio e nel tempo, passando da Lévi-Strauss a Max Weber. Quest’ultimo, in una pagina straordinaria del 1904(!), dopo essersi chiesto “che cosa corrisponda nella realtà empirica allo stato”, risponde: «Noi troviamo un’infinità di comportamenti umani attivi e passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni regolate di fatto e giuridicamente che presentano un carattere in parte singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute insieme da un’idea, cioè dalla fede in norme valide di fatto, o che debbono valere, o in rapporti di potere degli uomini sugli uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettualmente elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte ancora passivamente accolta e configurata nel modo più diverso nella testa di individui». In altre parole, lo stato non è un’entità reale che sussiste al di là dei comportamenti individuali e dei contenuti nella testa degli individui strutturati in determinate relazioni. Esso è invece un tipo-ideale, cioè un modello di una realtà infinitamente complessa, il quale accentua solo alcune connessioni di quest’ultima, rappresentandole astrattamente. Proprio perché è un’astrazione, ad un tipo-ideale non corrisponde nulla nella realtà, cioè esso è una sorta di “utopia”, che può essere utile solo nella ricerca delle cause di un evento umano. Avevamo detto in precedenza, che per Lévi-Strauss sussiste una profonda analogia fra le scienze naturali e quelle della cultura, tanto che, così come la fisica procede all’individuazione delle entità inosservabili che rendono conto dei fenomeni che osserviamo, così l’antropologia deve individuare quelle strutture invarianti che guidano i singoli comportamenti palesi degli uomini. Per contro, Weber osserva: «Nulla è però più pericoloso di una mescolanza di teoria e storia, derivante da pregiudizi naturalistici, sia che si creda di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere teoretico il contenuto “proprio”, l’“essenza” della realtà storica, sia che li si impieghi come un letto di Procuste nel quale debba essere costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le “idee” come una realtà “vera e propria” che sussista dietro al fluire dei fenomeni, cioè come “forze” reali che si manifestano nella storia.» Ovvero l’uso dei concetti ideal-tipici aiuta a semplificare l’immensa complessità della realtà sociale, ma non rende possibile l’afferramento di realtà inosservabili, che vadano al di là dei comportamenti individuali e dei pensieri dei singoli. In altre parole, se da un lato, in fisica, le generalizzazioni consentono di mettere in luce l’azione di entità che non possiamo percepire, ma che possiamo descrivere in modo solo astratto, dall’altro, nella considerazione scientifica dei fenomeni culturali, le generalizzazioni hanno esclusivamente una funzione euristica ed espositiva. Si può anche dire che, se da un lato, il sapere nomologico, cioè le leggi, sono lo scopo dell’indagine nelle scienze naturali, dall’altro, nelle scienze della cultura esse sono solo un mezzo, utile a rintracciare una spiegazione causale del fenomeno che ci interessa. Vediamo allora con un nostro esempio come procede, secondo Weber, la ricerca delle cause di un fatto umano. Ci interessa conoscere perché (in senso causale) Abdallah ha spaccato il naso al signor Rossi. Sappiamo che Abdallah è emigrato in Italia quando aveva vent’anni dal Marocco. Ci formiamo quindi il tipo-ideale “emigrante marocchino” e troviamo facilmente nelle statistiche sociali che questo tipo-ideale ha una frequenza di denunce per rissa significativamente più alta della media nazionale italiana. Possiamo allora affermare che “Abdallah ha spaccato il naso al signor Rossi perché è un emigrato marocchino”? Assolutamente no, perché come abbiamo appena visto, i tipi-ideali sono meri concetti senza alcuna realtà, per cui non possono certo avere potere causale. Allora, ci domandiamo a che cosa servono i tipi-ideali nella ricerca delle cause. Lo vediamo subito. Dalle stesse statistiche scopriamo che i giovani marocchini senza famiglia hanno un tasso di alcoolismo maggiore della media nazionale dei coetanei. Questo ci guida nell’indagine empirica, facendoci scoprire che Abdallah – che ha una moglie e una figlia in Marocco – è effettivamente spesso alticcio e lo era anche quando ha aggredito il signor Rossi. Allora a questo punto possiamo scoprire una causa importante del comportamento di Abdallah. Egli, infatti, soffre della lontananza della moglie e della figlia e questa sofferenza lo porta ad alzare troppo spesso il gomito. Cosa che era accaduta anche la sera della rissa con il signor Rossi. L’alcool disinibisce l’aggressività e così Abdallah ha colpito Rossi con violenza sul naso. Vediamo dunque come la storia personale e gli stati d’animo di Abdallah sono concausa dell’evento che stiamo indagando. Dunque solo la situazione individuale di Abdallah può essere una delle cause dei suoi comportamenti e non certo un tipo-ideale. Quest’ultimo è solo un mezzo per scoprire le cause effettive. Bisogna però notare che abbiamo individuato solo una delle infinite cause del comportamento di Abdallah, dove Weber con il termine “causa” intende una condicio sine qua non, cioè una situazione che, se non ci fosse stata, il fenomeno che ci interessa non si sarebbe verificato. Sono molti altri i fattori che hanno influenzato il comportamento di Abdallah e quindi essi sono cause nel senso appena delineato. Infatti non tutti i marocchini emigrati in Italia con la famiglia lontana bevono troppo. Ci possiamo ora chiedere che cosa guida la costruzione dei tipi-ideali, cioè perché si sceglie di semplificare l’infinita complessità in un certo modo piuttosto che in un altro. Weber risponde che ciò che ci indirizza è l’interesse. Nell’infinita rete di cause che agiscono in ogni fenomeno umano, nel tipo-ideale prendiamo in considerazione solo quelle che vogliamo indagare. Ad esempio, se stiamo conducendo una ricerca sugl’immigrati in Italia non interessa sapere che il padre di Abdallah era molto violento e lo picchiava spesso da bambino, per cui egli ha maturato un’indole iraconda. Per contro poniamo attenzione ai nessi causali che riguardano la sua storia di migrazione. Una conseguenza del fatto che noi ci avviciniamo all’infinita complessità della realtà umana mediante astrazioni ideal-tipiche scelte da noi, sulla base dei nostri interessi, porta con sé che ogni ricerca è imprescindibilmente soggettiva, cioè pregiudicata dalle nostre scelte. Tuttavia tale soggettività sta solo nella decisione di considerare alcuni aspetti e non altri della realtà, poiché, una volta che abbiamo stabilito i tipi-ideali, l’indagine empirica e teorica deve portare a risultati univoci, oggettivi e validi per tutti. In altre parole, un altro ricercatore può non condividere gli stessi interessi e quindi costruirsi altri tipi-ideali, ma una volta che avesse accettato determinate astrazioni, le conseguenze deriverebbero con necessità. Avevamo inoltre visto che per Lévi-Strauss le strutture agiscono inconsapevolmente, dirigendo i comportamenti dei singoli, un po’ come accade per la langue di Saussure. Invece, come si vede dal passo di Weber che accenna al tipo-ideale “stato”, benché il sociologo tedesco parli di «una fede oscuramente sentita», tuttavia tale inconscio non è collettivo, come quello dell’antropologo francese, ma individuale. Cioè una grande quantità di individui, posti in situazioni analoghe, non solo hanno credenze esplicite simili, ma possiedono anche più o meno le stesse opinioni inconsapevoli.
L’identità culturale È giunto il momento di ricapitolare brevemente il nostro percorso. Abbiamo visto come nell’antropologia culturale si è affermata una nozione comparativa di cultura in opposizione a una concezione evolutiva. In secondo luogo, abbiamo visto come negli ultimi venti anni tale nozione comparativa è entrata in crisi, fino a mettere seriamente in discussione la sensatezza di affermazioni del tipo «Tal dei Tali appartiene alla cultura XYZ». Mediante una discussione dell’epistemologia delle scienze sociali di Lévi-Strauss e Weber, ci siamo resi conto che ci sono almeno due diversi modi di intendere le nozioni antropologiche come quella di cultura di un gruppo: 1) come una vera e propria realtà nascosta, che lo scienziato cerca di ricostruire formulando modelli sulla base dei comportamenti dei membri di quel gruppo (Lévi-Strauss); 2) come un concetto tipico-ideale senza alcuna pretesa di realtà, che può guidare nella ricerca delle cause individuali dei comportamenti individuali dei membri di quel gruppo (Weber). È nostra convinzione che la crisi della nozione di cultura messa in luce nelle opere di Geertz, Amselle, Clifford e Fabietti riguarda più il concetto inteso alla Lévi-Strauss che alla Weber, cioè tale critica colpisce le indebite sostanzializzazioni e ipostatizzazioni della nozione d’identità culturale che si sono sviluppate in una certa temperie culturale. Infatti, se intendiamo l’identità culturale, cioè l’appartenenza a una determinata cultura, come un semplice concetto-genere, che può essere utile a comprendere meglio i comportamenti dei singoli uomini, e non come una proprietà reale dei membri di un gruppo, molti inconvenienti legati a tale nozione messi in luce in precedenza scompaiono. Vediamo allora come si può ridefinire la nozione d’identità culturale. Una cultura è un termine definito da una teoria esposta mediante il linguaggio comune, non riducibile ai singoli comportamenti e stati mentali degli individui. Tale teoria utilizza disposizioni comportamentali e mentali, cioè tendenze a comportarsi in un certo modo e ad assumere certi atteggiamenti mentali. Essa, inoltre, fa quasi sempre riferimento a oggetti o simboli collettivi, cioè strutture materiali o simboliche sovraindividuali, come totem, forze soprannaturali ecc. Tale teoria contiene anche leggi dinamiche sue specifiche, che spiegano in modo non causale, ma giustificato, l’evoluzione che alcuni tratti di quella cultura possono subire. Questa teoria, tuttavia, non è il modello di una realtà nascosta, ma semplicemente un tipo-ideale, che può aiutare nello studio di individui che vivono in ambienti culturali diversi. Allora si può dire che «Tal dei Tali appartiene alla cultura XYZ nel periodo di tempo T», se la teoria XYZ, che definisce la cultura XYZ giustifica tale affermazione. Si tenga conto che la teoria contiene anche le leggi dinamiche, per cui essa è in grado di stabilire se Tal dei Tali appartiene a una certa cultura anche per un periodo di tempo molto lungo. Addirittura, se le leggi dinamiche della teoria sono sufficientemente elaborate, si può immagine che la teoria possa decidere anche se i figli e i nipoti di Tal dei Tali sono di una certa cultura. L’identità culturale di Tal dei Tali nel periodo di tempo T sarà data dall’insieme di culture che è ragionevole attribuirgli. Così un individuo può acquisire e perdere l’appartenenza a una cultura e può far parte di culture diverse. Così viene affrontato adeguatamente anche un altro problema che la vecchia concezione di cultura aveva incontrato. Inoltre abbiamo abbandonato l’idea di Lévi-Strauss di definire le culture per contrasto, proprio perché abbracciamo una concezione continuista, cioè, come abbiamo detto in precedenza, non a mosaico, ma a macchie che sfumano l’una nell’altra. Infine la consapevolezza che una cultura non è altro che uno strumento di indagine, utile a scoprire le cause individuali dei comportamenti dei singoli, cioè un tipo-ideale, evita, almeno sulla carta, il problema delle identità culturali imposte o indotte, che sono state premessa di gravi ingiustizie e violenze. In conclusione, una nozione d’identità culturale conforme alla metodologia che Max Weber aveva pensato per le scienze della cultura all’inizio del secolo scorso sembra in grado di salvare il valore scientifico di tale nozione, eliminando quelle incrostazioni ontologiche, che una malintesa analogia con le scienze naturali, forse favorita anche da un certo clima culturale, aveva imposto negli anni Cinquanta e Sessanta del Ventesimo secolo.
BIBLIOGRAFIA J.L. Amselle [1990], Logiche meticcie, Bollati Boringhieri, Torino 1999 F. Boas [1938], L’uomo primitivo, Laterza, Bari 1995 J. Clifford [1988], I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 1999 D. Dennett [1991], Coscienza. Che cosa è, Rizzoli, Milano 1993 E. Di Nuoscio, Il mestiere dello scienziato sociale, Liguori, Napoli 2006 U. Fabietti, L’identità etnica, Carocci, Roma 1998 G. Fornero [1993], La filosofia contemporanea, vol. I, TEA, Milano 1996 C. Geertz [1973], Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987 C. Lévi-Strauss [1958], Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966 E.B. Tylor [1871], Primitive culture, Murray, London, trad. it. parziale in Il concetto di cultura, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1970 M. Weber [1922], Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958
NOTE 1 - La stesura di questo saggio è stata resa possibile dalle proficue discussioni con Luigi Alfieri ed Enzo Di Nuoscio. 2 - Amselle, 1990, p. 68 e Fabietti, 1998, p. 52. 3 - Tylor, 1871, p. 8. 4 - Boas, 1938, p. 131. Questo testo, il più divulgativo di Boas, esce prima nel 1911 e poi in un’edizione riveduta nel 1938, allorché esso si configura come un’acutissima requisitoria contro la pseudo-scientificità del razzismo allora dilagante in Europa. 5 - Boas, 1938, p. 150. 6 - Geertz, 1973, Clifford, 1988, Amselle, 1990, Fabietti, 1998. 7 - Amselle, 1990, p. 56. 8 - Fabietti, 1998, p. 19. 9 - Lévi-Strauss, 1958, pp. 328-29. 10 - Ivi. 11 - Ivi. 12 - L’invariante più celebre dell’antropologia di Lévi-Strauss è il famoso tabù dell’incesto. 13 - Fornero, 1993, p. 378. Queste pagine sono un’ottima introduzione al pensiero dell’antropologo francese. 14 - Lévi-Strauss, 1958, p. 311. 15 - Lévi-Strauss, 1958, p. 312. 16 - È da notare che nel dibattito contemporaneo su questo argomento è presente una corrente chiamata degli “eliminativisti”, che nega l’esistenza di stati mentali soggettivi; vedi, ad esempio, Dennett, 1991. 17 - Questa è la tesi dell’“individualismo metodologico”. Sull’argomento vedi l’ottimo manuale di Di Nuoscio, 2006. 18 - Siamo però legittimati dal fatto che Fabietti, 1998, pp. 97-98 segue un’argomentazione simile, alla quale ci siamo ispirati. 19 - Weber, 1922, pp. 119-20. 20 - I corsivi sono nostri. 21 - Weber, 1922, pp. 107-108. 22 - Weber, 1922, pp. 113-114. 23 - Weber, 1922, p. 129. 24 - Weber, 1922, pp. 207ss. 25 - Weber, 1922, pp. 90ss. 26 - Weber, 1922, pp. 127ss. 27 - Non causale, perché la causalità può aver luogo solo in relazione agli individui. 28 - Cioè tali leggi, all’interno della teoria che descrive quella cultura, spiegano le ragioni per cui certi tratti culturali evolvono in quella maniera. 29 - Con questo, tuttavia, non si è detto nulla di sostanziale su Tal dei Tali.
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