Conoscenza interculturale attraverso l’arte: un approccio antropologico
Ivan Bargna
Abstract
The fact that art can promote the intercultural knowledge in an adeuquate manner does not need demonstration: it is now an axiom at the base of the modern theories on the contemporary art world and of the cultural cooperation policies.
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Che l’arte possa promuovere la conoscenza interculturale e che lo possa fare in maniera adeguata sembra essere qualcosa che non ha bisogno di dimostrazione: è uno degli assiomi alla base delle retoriche di funzionamento dell’odierno mondo dell’arte così come delle politiche di cooperazione culturale. L’arte – si dice da più parti – facilita il dialogo, educa alla pace, promuove la reciproca conoscenza fra i popoli: non diversamente dal calcio sembra costituire una zona franca, un linguaggio universale che può accomunare tutti gli uomini. Gli artisti sembrano riconoscersi e intendersi immediatamente malgrado le distanze culturali e linguistiche e anche il pubblico appare ben disposto nei confronti di questa world art: come intitolava la 49esima Biennale di Venezia l’arte si rivolge oggi alla “platea dell’umanità”. Di più: l’arte non solo, attraverso la sua supposta “universalità”, unisce e riunisce gli esseri umani, ma sollecita e consente che li si riconosca nella loro identità particolare, nella loro diversità culturale: il mondo dell’arte si presenta così come uno spazio d’accoglienza in cui la comunicazione avviene all’insegna della trasparenza e secondo le leggi dell’ospitalità. E questo a dispetto del carattere spesso ben poco intelligibile dell’arte contemporanea. In questo modo di pensare, sentire e fruire l’arte, che fa parte del senso comune, in maniera spesso confusa, si sovrappongono due modi diversi di pensare il rapporto fra arte e cultura. Nella prima di queste due prospettive le culture sono viste come entità dotate di un’unità distintiva e l’arte è intesa come specchio ed espressione della loro autenticità e della loro irriducibile diversità: le culture vi appaiono come unità discrete, sorta di atomi, e l’arte come una loro produzione germinale, che viene tutta dall’interno, che ne esprime cioè l’interiorità. Si tratta di una concezione reificante che pensa tanto l’arte che le culture come “oggetti” collezionabili che vanno definiti nelle loro proprietà e recuperati e preservati sottraendoli alle ingiurie del tempo. È l’orizzonte del relativismo culturale, del collezionismo d’arte esotica, del multiculturalismo e del neotribalismo, che per quanto fra loro diversi, condividono l’ossessione per l’“autenticità”. La seconda prospettiva è quella interculturale: da questo lato, l’arte sembra poter promuovere la conoscenza fra le culture favorendo uno spostamento dalla loro giustapposizione (la prospettiva precedente del multiculturalismo) alla loro coesistenza e compenetrazione (l’interculturalità, appunto). Questa posizione differisce dalla prima negli intenti ma ne condivide in realtà il punto di partenza: la dimensione interculturale infatti è pensata nell’ordine della progettualità e dell’intenzionalità etico-politica, come riorientamento di una realtà effettuale che continua a essere vista (sul modello dello stato-nazione) come giustapposizione di totalità dotate di unità intrinseca (la metafora del corpo politico). Come se forme artistiche e culture esistessero “prima” come realtà separate e dotate di unità distintiva e solo “poi” entrassero in relazione, meticciandosi fra loro (secondo un immaginario che è appunto, ancora, quello della purezza della razza che “precede” l’incrocio). Vorrei ora riportare queste considerazioni molto generali sul terreno specifico delle arti africane. Qui il binomio “arte-conoscenza interculturale” appare particolarmente forte: gran parte degli sforzi tesi ad allacciare delle relazioni positive fra Africa e Occidente, presentando un’immagine positiva dell’Africa che vada al di là degli stereotipi dell’Africa misera e indigente, debitrice e dipendente, poggia sulla sua valorizzazione estetica: l’arte viene cioè presentata come il contributo principale portato dall’Africa all’ecumene globale. Qui, forse più che altrove, ha dominato però anche una concezione “separatista” che ha visto l’Africa come confinata e chiusa in se stessa: sorta di vaso di Pandora che quando viene aperto libera tutti i mali. Il presupposto che in gran parte dà ancora forma al senso comune (e al mercato d’arte) è cioè che l’autenticità delle arti e delle culture africane si mantenga solo nella separatezza, e che apertura e relazione portino inevitabilmente a perdita e corruzione. L’“arte africana tradizionale” è stata cioè a lungo intesa come “arte primitiva” (e in parte continua a esserlo ancor oggi sotto forme più o meno velate di “neoprimitivismo” o “neoetnicismo”) vedendovi sia un’espressione ingenua posta al di qua della ragione, sia un’espressione intuitiva, che sta al di là della ragione: stadio superato o condizione permanente dell’umanità. È però possibile guardando ai fenomeni contemporanei del meticciato e della globalizzazione come a una radicalizzazione di dinamiche sempre esistite e quindi come a un’apertura ermeneutica per riconsiderare le situazioni passate, intendere l’arte africana (le arti africane, l’arte in Africa) come una “costruzione relazionale e interculturale” tanto a livello della ricezione che della produzione. Dire che l’“arte africana” è una costruzione relazionale e interculturale a livello della ricezione significa prendere consapevolezza del fatto che gli oggetti africani “diventano” opere d’arte nel loro trasferimento nei nostri musei e nei nostri salotti: posti sotto un altro sguardo, il nostro, quello del critico d’arte, acquisiscono nuove valenze; vengono privati delle loro funzioni religiose, politiche, sociali e trasformati in oggetti di godimento estetico. Da questo punto di vista l’“arte” non appare come un “a priori” transculturale ma come un costrutto storico-culturale e istituzionale specifico che si diffonde con l’occidentalizzazione del mondo. Se tutti gli esseri umani in quanto chiamati a “dar forma” al proprio corpo, alla società e al mondo li modellano esteticamente, l’“arte” non ne è però necessariamente il punto d’approdo unico e definitivo. I percorsi però non sono mai a senso unico, gli sguardi sono sempre incrociati e le “muse d’oltremare” stanno su entrambe le sponde: quando parliamo d’arte occorre anche pensare che oltre a un primitivismo europeo che si è nutrito dell’art nègre, vi è stato anche un modernismo africano che ha guardato all’Occidente e che gli Africani non solo subiscono ma si appropriano attivamente della concezione europea dell’arte, pervenendo a creazioni che vanno ben oltre gli stereotipi primitivisti entro i quali spesso tendiamo a confinarli. L’“arte africana” (o meglio gli oggetti che poi verranno così classificati) è però una costruzione relazionale e interculturale già a livello della produzione: vive infatti dentro tutta una rete di rapporti sia su scala locale e regionale (che rendono problematica l’applicazione del concetto di “arte etnica” che presuppone un’arte peculiare per ciascun gruppo etnico) che su scala intercontinentale (come è il caso dell’arte di corte in epoca coloniale o della produzione tessile). Gran parte dell’arte delle corti africane già a partire dal XVI secolo si definisce nel rapporto (di alleanza e scontro) con l’Europa e trova nelle risorse reperite attraverso la partecipazione alla tratta degli schiavi una delle sue condizioni di possibilità. L’“arte” mostra così la sua costitutiva interculturalità già nella sua genesi, ma queste relazioni interculturali non sono di tipo etico e paritario: l’integrazione che si realizza, presuppone e struttura rapporti diseguali di potere dentro cui l’arte, in modo “politicamente non corretto”, prospera. L’arte non può dunque essere univocamente assunta sotto il segno della trasparenza, non diversamente dal calcio (altro grande spettacolo globale), è anche un gioco competitivo, attraverso cui si esercita un potere e si muovono denari. Senza voler ridurre tutto a una mistificazione ideologica, occorre però rimarcare come il sapere dell’arte sia sempre una forma particolare di potere-sapere: l’arte non solo promuove il dialogo ma serve anche a fare la guerra. Le immagini esercitano un potere e costituiscono una delle poste in gioco dei conflitti: parlare di identità relazionali non significa necessariamente postulare relazioni etiche e paritarie. Ci si può ad esempio chiedere se l’insistenza con cui si fa dell’arte uno dei canali privilegiati attraverso cui filtrare i rapporti con le altre culture non stia nell’effetto anestetizzante che produce la loro rappresentazione nello spazio pacificato dell’arte: estetizzando miseria e conflitti, se ne rimuove di fatto il carattere violento. Le relazioni interculturali poggiano, più che sulla trasparenza della conoscenza reciproca, su “malintesi ben intesi”, che spesso nessuno ha l’interesse di dissipare in quanto funzionano come spazi di tolleranza che consentono la convivenza nella finzione dell’accordo. L’arte, in ultima analisi, per quanto possa nutrirsi dell’interculturalità, non necessariamente promuove il rispetto reciproco né questo necessariamente giova all’arte: si possono appendere le maschere africane in salotto e nel contempo voler buttare in mare i clandestini; amare il proprio prossimo come se stessi e non saper dare al proprio sentimento una forma esteticamente pregnante. Ivan Bargna è ricercatore e docente di Etnoestetica ed Etnologia presso l’Università di Milano Bicocca. È autore di Arte africana, Jaca Book, 1998 e 2003
BIBLIOGRAFIA J.L. Amselle, Arte africana contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 2007 I. Bargna, Arte africana, Jaca Book, Milano 2003 I. Bargna, Arte in Africa, Jaca Book, Milano 2007 I. Bargna, Il mito dell’arte primitiva: una prospettiva antropologica in V. Sironi (a cura di), La conoscenza del cervello. Storia e problemi delle neuroscienze, Graphis, Bari 2006 H. Becker, I mondi dell’arte, Il Mulino, Bologna 2004 J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1993 R. Débray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente, Il Castoro, Milano 1999 P. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 1993 A. Gell, Art and Agency. An Anthropological Theory, Clarendon Press, Oxford 1998 J. Mac Clancy, Contesting Art: Art, Politics and Identity in the Modern World, Berg, Oxford e New York 1997 J. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza. I “verbali segreti” dietro la storia ufficiale, Eleuthera, Milano 2006
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